I filoni di Reset sono due:
·
Quello del futuro con protagonisti tre ragazzi, Martina, Alessandro e Daniele che vivono
nel 2020, quando il Governo con le case che producono tecnologia decide di
bandire ogni scritto che riguardi il passato, affinchè le persone non provino
più nostalgia o sentimenti simili ma si concentrino solo sul consumo. Pur
rischiando molto, rubano del materiale su tre delle loro famiglie d’origine e
leggono i documenti, così il lettore scopre le storie del passato. Obiettivo
dei ragazzi è salvare quelle storie;
·
Quello del passato, che copre un arco temporale dagli anni Ottanta dell’Ottocento fino al
1919, con protagoniste tre famiglie, i Ravelli, i Pangrazzi e i Pedergnana.
Ognuno attraversa momenti difficili come l’emigrazione ma anche il ritorno a
casa, la prima guerra mondiale ma anche la fine del conflitto.
Il paese dov’è ambientato
Reset (Reset significa cancellare nella terminologia dei computer, cioè ciò che
intende fare il Governo nel 2020) è Mezzana,
in val di Sole (Trentino) ma la
prima parte, quella dedicata alla famiglia Ravelli, si svolge anche nel paese
di Monte San Savino in Toscana, dove
la famiglia emigrò per 11 anni prima di tornare in Trentino.
Reset è una storia vera. Le storie narrate in Reset sono frutto del mio
lavoro di ricerca e documentazione sui miei avi: le tre famiglie di cui si
parla fanno tutte parte del mio albero genealogico e hanno vissuto le vicende
narrate nel libro. È qui di stato anche un tentativo per recuperare la mia
storia personale e fare in modo che non andasse perduta. A proposito, l’uomo
nella fotografia qui sopra, quello vestito di scuro sulla destra, è il mio avo
(e protagonista della prima parte del libro) Romedio Ravelli.
Ora, ecco alcune pagine di Reset,
si tratta dei primi tre capitoli. Buona lettura!
PERSONAGGI PRINCIPALI
CASA RAVELLI
GIACOMO e CATERINA
ROMEDIO e ALBERTINA
↓
MARINA
GIOVANNI
GIUSEPPE
TERESA
RAFFAELE
CASA PANGRAZZI
SIMONE e MARIA
↓
MARCO
CATERINA
MATILDE
VIOLANTE
CASA PEDERGNANA
PIETRO e LUCIA
FUTURO ANNO 2020
MARTINA
ALESSANDRO
DANIELE
PARTE PRIMA
CAPITOLO 1
Anno 2020
Dovevano agire in fretta. Se li avessero trovati intenti a frugare tra quei documenti forse non ne sarebbero
usciti vivi. Erano in quel luogo da
oltre mezz’ora e ancora non cessavano di meravigliarsi di quanto avevano scorto sugli scaffali e dei
documenti trovati ammonticchiati su
armadi impilati in disordine o riposti in cassetti che traboccavano del loro contenuto, in una confusione che
denunciava non solo l’incuria di chi li
custodiva ma soprattutto il generale disinteresse verso quel materiale. Ovunque si girassero non
vedevano altro che montagne di fogli, in
gran parte ingialliti dal tempo, tenuti insieme da graffette con fotografie in bianco e nero poste all’inizio
di ogni fascicolo. Ce n’erano di tutti i
tipi: immagini di case, giardini, paesaggi di un’epoca non ancora segnata dall’industrializzazione e dal
dilagare della tecnologia e soprattutto volti
di donne, uomini, bambini, intere famiglie. Se ne stavano lì da molti anni e guardavano gli inaspettati
visitatori aggirarsi tra la polvere del
tempo alla ricerca di qualcosa che non doveva andare perduto. Da anni in quelle sale non si vedeva
qualcuno, fatta eccezione per il guardiano
che ogni sera passava in quei corridoi silenziosi per controllare che nessuno si fosse intrufolato
nell’edificio e per gli addetti ai lavori che
di tanto in tanto capitavano per depositare altro materiale sottratto
alla memoria di qualcuno. Deponevano i fascicoli,
custoditi all’interno di cartelline di
cartoncino giallo, in uno spazio a caso, tanto ci avrebbero pensati gli altri a riordinare. Gli altri erano
coloro incaricati di ordinare alfabeticamente
i fascicoli e in seguito trasportarli, man mano che si procedeva, in un ufficio attiguo dove sarebbero stati
distrutti: tutte le altre informazioni
contenute su formato digitale erano già scomparse da un pezzo. Per il momento quest’operazione era
giunta alla lettera F: un buon risultato
considerando la mole di lavoro richiesta per rastrellare i documenti di un enorme numero di persone. Gli
addetti svolgevano il loro incarico
senza turbamenti o sensi di colpa, consapevoli che quanto portavano a termine era necessario per il
bene di tutti. Almeno, questo è ciò che
veniva ripetuto dalle autorità, ma in fondo chi erano loro per mettere in discussione quei principi? solo
una volta, quando uno di loro dovette
trasportare un fascicolo che ben conosceva, ebbe qualche esitazione. Non si decideva a separarsene e fu solo
grazie all’intervento di un collega che
in pratica glielo strappò di mano che tutto andò a buon fine. Insomma, non erano delle macchine, ma erano
molto vicini a diventarlo. Da quando il
Governo aveva deciso di dare il via all’operazione Reset, termine prestato dalla tecnologia, migliaia
di informazioni erano andate perse
irrimediabilmente. L’operazione, iniziata da qualche anno, mirava a cancellare letteralmente il passato delle
persone attraverso la raccolta di tutto
il materiale che ne costitutiva la storia: fotografie, documenti, scritti degli antenati gelosamente custoditi
per anni che le persone erano costrette
a depositare presso le strutture amministrative della zona. Il procedimento non era privo di intoppi e
difficoltà, soprattutto perché in tanti
si rifiutavano di collaborare con gli operatori del Reset e non consegnavano spontaneamente ciò che gli veniva richiesto.
Per questo motivo il Governo aveva
istituito una legge speciale che condannava coloro che si sottraevano al loro dovere al primo
sollecito con una multa salatissima, al
secondo con la prigionia da sei a vent’anni. In questo modo si erano ridotti notevolmente i recidivi,
spaventati dalle sanzioni applicate, e
di conseguenza era aumentato in maniera proporzionale il materiale accumulato. Nessuno conosceva davvero la
motivazione che aveva indotto il Governo
a dare il via al Reset, a parte l’incremento delle malattie di tipo psicologico legate a depressioni che
venivano collegate alla tendenza di
rivangare il passato da parte delle persone che si tentava in questo modo di arginare, ma di fatto il
nocciolo della questione era un altro.
Dall’anno 2015 in
poi le più grandi industrie tecnologiche avevano prodotto e immesso sul mercato tutta una
serie di oggetti dotati di capacità tali
da limitare al minimo i contatti tra gli esseri umani, potenziando al massimo e nel giro di pochissimo tempo i
normali telefonini, Mp3 e connessioni
Internet ormai antiquati. Erano nati così l’Mp34 con una capacità di 4.000 Terabyte e Ram da 3.200
Gigabyte, capaci di contenere un’intera
biblioteca in E-Book, di fatto eliminando le noiose soste alle biblioteche pubbliche, ora quasi tutte
occupate unicamente a caricare sui
lettori degli utenti, in pochi secondi, l’intero patrimonio librario, videofonini muniti di capacità tattili e
percettive tali da poter toccare il viso
della persona con cui si stava parlando e di sentire odori e profumi, mentre ogni esercizio pubblico, struttura
sanitaria e scolastica era collegata ventiquattro
ore al giorno con le persone grazie a capacità di ricezione e trasmissione che si aggiravano sui 50.000
Gigabyte al secondo, stime destinate ad
ottimizzarsi nel tempo, che consentivano di seguire le lezioni, fare la spesa, recarsi in un
ufficio o effettuare una visita medica senza
spostarsi da casa propria. Inoltre un nuovo prototipo, lo Z-8000, sul quale si era iniziato a lavorare già nel
1999, stava dando grandi risultati. Si
trattava di un apparecchio nato nell’ambito della nanotecnologia che stava sulla punta di un dito e che
applicato sotto la cute permetteva di
conoscere in tempo reale l’andamento dei propri investimenti, le ultime notizie locali, nazionali e
internazionali, di accedere alle banche
dati di tutto il mondo, di inviare tramite comandi vocali fax, documenti, immagini, video e musica grazie ad un
minuscolo scanner installato nel
dispositivo, di compiere viaggi virtuali grazie al connubio tra suoni, parole, immagini, profumi che
avvolgevano la persona portandola in
pochi secondi in Perù, nella foresta amazzonica, nelle terre selvagge del Nord o in qualunque altro paese scelto.
Ma la vera novità che aveva fatto
lievitare le vendite dello Z-8000 era l’“I-Myself” “L’Io Stesso”, una funzione che per un giorno intero si sostituiva
all’utente svolgendo per lui tutte le
incombenze lavorative. In pratica bastava programmarlo la sera prima specificando gli impegni del
giorno successivo e il micro dispositivo
lavorava a pieno ritmo immagazzinando dati, occupandosi delle telefonate, sbrigando le più diverse
incombenze legate agli impieghi intellettuali,
ma ci si stava attrezzando per un Z-8000 comprensivo di estremità mobili per i lavori manuali e
artigianali. Con un sostituto a disposizione
erano in tanti a utilizzarlo, consapevoli che lo stipendio a fine mese sarebbe stato lo stesso, ed ora era
in cantiere una nuova funzione per
sviluppare le relazioni interpersonali ed occuparsi degli animali domestici. Negli ultimi anni con gli enormi
progressi della tecnologia era entrata
in crisi l’industria automobilistica, un tempo mercato più florido che mai, poiché in sostanza
spostarsi non era quasi più necessario,
o lo era in misura nettamente inferiore rispetto ai decenni precedenti. Anche la tv, visto il proliferare
dei dispositivi maneggevoli e tascabili
che trasmettevano programmi ad alta definizione, aveva visto tramontare l’età d’oro che l’aveva
contraddistinta a lungo, per non parlare
dei giornali che, sostituiti dalle notizie diffuse ad ampio raggio
tramite i canali di Internet, o avevano
chiuso definitivamente i battenti oppure
sopravvivevano a stento, retaggio di un passato culturale ormai gradito a pochi. In tale contesto era quindi
più che auspicabile, da parte delle
grandi industrie produttrici, scongiurare un ritorno al passato che di tanto in tanto qualcuno predicava
auspicandosi un presente ed un futuro ancora
improntati sul contatto umano tra la gente. Erano sorti anche gruppi sulla scia di questa volontà di
ritorno al passato, ma erano stati messi
a tacere attraverso un’opera di riprogrammazione del cervello attuata in carcere. Il cercare di trafugare
del materiale dagli archivi era punibile
con anni da passare in prigione, o peggio. Per questo i laboratori, ma sarebbe meglio definirli magazzini, dell’operazione
Reset in realtà erano poco sorvegliati,
a parte la guardia che passava ogni sera e
che in quegli anni dall’avvio dell’operazione non aveva mai scoperto
nessun potenziale ladro. Perché nessuno
avrebbe rischiato la propria libertà o
la vita solamente per recuperare pezzi del proprio passato. Per questo erano riusciti ad arrivare fin lì e ad aver
accesso anche alla stanza in cui i
fascicoli riordinati aspettavano di essere distrutti. Sfogliarono in fretta le cartelle con le iniziali che interessavano
la loro ricerca, trovando quasi subito,
miracolosamente, ciò che cercavano. Ora restava il problema di uscire dallo stabile. Infatti, presi dalla
loro missione, non si erano accorti dei
passi che avanzavano con fare lento e monotono lungo i corridoi. Il guardiano, palesemente seccato per il compito
noioso che lo aspettava ogni sera,
apriva distrattamente le porte degli uffici, con la certezza di non trovarvi anima viva. Sorvegliava quel
posto da cinque anni e non gli era mai
capitato di imbattersi in qualche disgraziato che, sfidando la legge, arrivava fin lì con l’intento di
portarsi a casa ciò che in realtà era suo.
A volte si chiedeva a cosa servisse buttar via soldi in sorveglianza, ma poi ricordava a se stesso che anche se il
suo ruolo risultava in pratica inutile
gli consentiva di guadagnarsi da vivere. Nel laboratorio intanto si erano resi conto che l’unica speranza di
salvezza era cogliere alla sprovvista la
guardia. Aspettarono il momento propizio e, nell’attimo esatto in cui abbassò la maniglia ed entrò,
gli furono addosso urlando e menando
colpi a caso. Il povero guardiano non ebbe nemmeno il tempo di reagire: rimase lì a terra, attonito per
quell’inattesa presenza, con una gran
confusione in testa. Gli altri corsero a perdifiato per i corridoi e uscirono, fermandosi solo una volta raggiunto
un posto sicuro. Allora estrassero il
materiale dalle tasche dei giubbini in cui avevano riposto il tutto e lisciarono quelle pagine che
contenevano la loro storia. Non erano quasi
più abituati a tenere in mano dei fogli di carta e li toccarono con cautela, timorosi di vederli frantumarsi in
tanti piccoli pezzi da un momento all’altro.
Dopo quella sommaria ispezione camminarono veloci verso il loro rifugio, sicuri che in quel fracasso
la guardia non li avesse riconosciuti.
Ma nonostante questa constatazione, solamente quando furono al sicuro tra le pareti familiari
osarono parlare e, depositati i fascicoli
sulla scrivania, si sorrisero l’un l’altro. Ce l’avevano fatta. L’operazione Reset, o almeno una sua piccola parte, aveva
subito il primo smacco. Iniziarono
subito a fotocopiare le carte in modo da garantirsi una copia nel caso gli originali fossero
stati loro sottratti e un’ora dopo sedettero,
sfiniti, davanti alle tazze di caffè bollente che li avrebbero riportati in vita. Assaporarono la bevanda con un misto
di orgoglio e timore per quell’impresa
mirabolante. Dopo, riposte le tazze nel lavello, si divisero il materiale tra loro. E
iniziarono a leggere.
CAPITOLO 2
Monte San Savino 1900
Guardava le colline. Era lì da ormai undici anni eppure ancora
faticava ad abituarsi a quel paesaggio e
fissava i paesi sparpagliati in quella
distesa che pareva non avere mai fine con un certo stupore. Aveva fatto l’abitudine a tante altre cose: al
parlare così diverso dal suo dialetto, al
clima più mite rispetto al rigore cui era avvezzo, anche alla natura colma di oliveti e vigneti sconosciuti al suo
paese. Ma a quello, lo sentiva, non si
sarebbe mai abituato. All’assenza delle montagne, a quella linea di demarcazione tra cielo e
terra che aveva caratterizzato la sua
infanzia e l’intera sua vita fino al momento di emigrare, a quella non poteva rinunciare. A quello non poteva
rassegnarsi. Romedio si staccò con
fatica da quel paesaggio. Il tepore della primavera accarezzava le sue spalle e un lieve venticello muoveva
ritmicamente i rami degli alberi accanto
a lui. Sarebbe stato bello perdersi in quel silenzio. Invece doveva tornare indietro, tornare a casa, sebbene
quella casetta in realtà per lui rappresentasse
solo un approdo temporaneo, un aggancio al mondo cui fare riferimento ancora per un po’, forse uno
o due mesi, sei, un anno al massimo. Il
tempo di raggranellare ancora qualche soldo e poi via di nuovo verso le sue montagne. Almeno, era
questo ciò che sperava. Era giunto a
Monte San Savino da emigrante, come tanti del suo paese del Trentino che da tempo si dedicavano a vari
mestieri in Toscana e in altre regioni
italiane. Andavano dove c’era bisogno di manodopera, dove servivano artigiani capaci di modellare e aggiustare il
rame e allora venivano chiamati
“paroloti” o uomini che segavano il legno e allora erano chiamati “segantini”. Tra questi c’era stato
anche chi era partito per la Stiria e la
Carinzia. Romedio, che era bravo a lavorare con le mani, aveva scelto di essere uno dei “paroloti”, anche se
in definitiva la sua non era stata
propriamente una scelta ma una sorta di obbligo imposto dalla miseria. Al paese natio non si trovava più lavoro e a
casa Romedio e la moglie Albertina
avevano già due ragazzi da sfamare. Un giorno, dopo la Messa, Romedio si era fermato a parlare con
alcuni compaesani che vivevano le sue
stesse difficoltà. Erano tutti uomini tra i trenta e i quarant’anni con famiglia a carico e pochi fiorini in
tasca. «Ho sentito dire che in Toscana
si lavora bene con il rame. Bartolomeo è
lì da diversi anni, dice che pagano bene» aveva detto Domenico, “Menico”, coscritto di Romedio. Aveva cinque
figli e campava con lavori occasionali
che gli venivano commissionati. «E dove,
in Toscana? dalle parti di Firenze?» aveva chiesto Romedio che di Firenze conosceva le bellezze
artistiche per aver letto diversi articoli
sulla “Domenica del Corriere”. Gli pareva talmente lontano un posto del genere, per lui che non era neppure quasi
mai uscito dalla val di Sole, che non
osava immaginare come si potesse organizzare un viaggio fin lì. «No, a Monte San Savino. Mi pare sia dalle
parti di Arezzo» aveva detto Menico. Così era nata in Romedio l’idea di provare,
anche lui, a fare il “parolot”. D’altra
parte non doveva essere difficile, dopotutto da sempre riparava tegami, pentole e tutti gli utensili che
usava in casa. Si trattava di raffinare
la tecnica, fare un po’ di pratica, farci “la mano” insomma. Quel giorno stesso, mentre si avviava verso
casa, decise che ne avrebbe parlato alla
moglie. Inoltre, a sostegno della sua idea c’era anche la presenza in quel luogo di Bartolomeo che avrebbe
potuto aiutarlo per i primi tempi. Gli
serviva tutto il materiale, il carretto per riporlo e per girare di paese in paese, e soprattutto una casa per
sé e i suoi. Non aveva nessuna
intenzione di andarsene senza la sua famiglia. Lasciare in valle sua moglie e i suoi figli avrebbe voluto dire
mettere radici nel nuovo luogo e questo
lui non lo voleva. Desiderava solo trovare un lavoro per vivere decorosamente, accantonare un po’ di
soldi e tornare al paese. Nel frattempo
forse sarebbero nate nuove opportunità anche a Mezzana. Così pensava mentre tornava a casa quel
giorno dalla Messa, dopo aver salutato
Menico e gli altri radunati come al solito sul sagrato. Tornava a casa con una speranza in più per il futuro. Erano partiti un mese dopo, il tempo di
imparare la tecnica di lavorare i
metalli con maestria dall’officina di Bortolo, il maestro ferraio. Ogni pomeriggio Romedio passava dall’officina
per carpire i segreti di quel mago del
ferro che sapeva tutto anche di ottone, rame, acciaio. Il buio laboratorio si illuminava di una fioca
lanterna a petrolio quando calava la
sera e Romedio un po’ osservava Bortolo impegnato nella sua arte un po’ provava a realizzare utensili di
rame sempre più impegnativi. Dopo
diversi tentativi infruttuosi si era reso conto che non bastava “raffinare la tecnica”, avrebbe dovuto imparare quasi da
zero. Bortolo sorrideva quando lo vedeva
arrabbiarsi per i suoi insuccessi, per il bordo di una pentola che non correva regolare o una
decorazione venuta male. Sorrideva e
commentava: “Ci vuole tempo” mentre come niente fosse creava catene, ferri da fieno, zappe,
martelli, serrature complicate e bellissime,
ma anche cornici e qualche oggetto per ingentilire la casa che avrebbe venduto, forse, a qualche passante di
città. I paesani non avevano certo la
possibilità di spendere in cose non necessarie. A Romedio pareva che Bortolo lavorasse come sotto
incantesimo tanto poco era lo sforzo nel
realizzare in un attimo quelle meraviglie, ma invece si trattava di arte appresa da generazioni, tramandata
nella famiglia come si tramandava il
nome e lui non sarebbe stato in grado di fare altro se non lavorare i metalli. Ce l’aveva nel sangue, non
riusciva ad immaginare una giornata
senza prendere in mano qualche attrezzo da forgiare. Già alla fine del Settecento sulla piccola piazzetta
del paese l’officina dei fabbri lavorava
a pieno ritmo e da allora era il punto di riferimento di tutti coloro che cercavano attrezzi, da acquistare o da
riparare, ma anche luogo accogliente per
fare filò la sera. Nelle sere d’inverno le famiglie dei dintorni si raccoglievano nell’officina e nella
piccola bottega attigua e mentre fuori i
fiocchi cadevano copiosi imbiancando le strade e i comignoli delle case da cui usciva un sottile filo di
fumo, nell’officina la fiamma del focolare
riscaldava le parole e i ricordi di quanti erano lì riuniti. In quelle giornate di alunnato non era raro che Bortolo
concludesse le sue lezioni con pane e
salame e due chiacchiere davanti ad un bicchiere di vino e a Romedio la compagnia di quell’artigiano era
doppiamente gradita. Bortolo chiedeva
notizie sull’idea di Romedio, che ormai non era più tale. La moglie Albertina, Giovanni e la sorella
Marina si preparavano infatti al
cambiamento imminente. La prospettiva di lasciare il paese non piaceva a nessuno, ma nessuno osava opporsi.
D’altra parte era ormai impossibile
continuare a vivere in ristrettezze e con i primi soldi Romedio avrebbe potuto aiutare anche i genitori che
avrebbero tenuto aperta la grande casa in
attesa del loro ritorno. Romedio teneva una corrispondenza con Bartolomeo che volentieri si era
incaricato di trovargli una sistemazione
a Monte San Savino. E finalmente un giorno giunse la lettera in cui comunicava che la casa c’era e, se
volevano, potevano partire anche subito.
La missiva arrivò un sabato mattina e Romedio riconobbe subito in quella calligrafia minuta la
scrittura di Bartolomeo. Aprì la busta
grigia con un misto di speranza e timore, senza capire se sentirsi smarrito o contento. La data era di sette
giorni prima. Romedio si chiese come
avrebbe fatto a sapere in tempo le notizie dal paese, una volta partito per la Toscana, se la posta impiegava una
settimana a coprire la distanza fra le
due località. E se fosse accaduto qualcosa ai genitori, mentre era via? come avrebbe fatto a ritornare in
tempo a Mezzana, in caso d’emergenza?
con questi interrogativi iniziò a leggere. Bartolomeo scriveva che era disponibile fin da subito una casetta
un po’ fuori paese che i padroni
affittavano agli emigranti come lui. Era un posto modesto, senza pretese, ma avrebbe accolto Romedio e
la sua famiglia per tutto il tempo della
loro permanenza. Scriveva anche che di “paroloti” c’era grande richiesta e che avrebbe velocemente
introdotto il compaesano in quell’ambiente.
Non parlava di soldi, ma pareva sottointeso che Romedio avrebbe pagato l’affitto con i primi guadagni
ricavati lavorando il rame. Inoltre,
aveva qualcosa da parte che gli avrebbe permesso di tirare avanti per i primi tempi. Romedio, che fino a quel momento era stato
assorto nella lettura sul ponte di legno
che collegava l’aia alla strada, scese verso la grande casa di pietra per comunicare la notizia alla
moglie. Quella casa era stata costruita dal
nonno di suo padre nel Settecento, pietra su pietra, trasportando il pesante carico a braccia dalle sponde del
fiume Noce ed era intrisa della fatica e
del sudore della fronte di generazioni. Ora stava per lasciarla. La mattina aprendo le finestre non
avrebbe più scorto il bosco al di là del
fiume e i campi coltivati dove il sole, a primavera, arrivava tiepido a scaldare la terra. Non avrebbe
sentito il metodico canto del cuculo a
maggio e i cantori della Stella che all’Epifania passavano di casa in casa ad annunciare la lieta novella. Con
chi avrebbe parlato il suo dialetto, a
parte Bartolomeo che, forse, sarebbe ripartito mentre lui restava in quel luogo? e se l’avessero costretto a
parlare “in lingua”? chi avrebbe capito
i sottintesi, le burle riferite al paese e ai suoi abitanti? aveva pensato spesso a questo in quei giorni, ma gli
appariva tutto come qualcosa di lontano
e quasi immaginario. Ora stava lì con la lettera in mano e la sua partenza era concreta, vera. Pensò ai
suoi avi, ai suoi genitori che non si
erano mai mossi al di fuori del paese e a se stesso che per poche volte si era avventurato fino in val di Non.
Gli era sembrato un viaggio eterno, fino
a Dermulo. Come sarebbe stato, a paragone, quest’altro? la moglie in quel momento gli venne incontro e,
senza dire una parola, capì. Era venuto
il momento di preparare le valigie. Non avrebbero impiegato molto tempo poiché non avevano quasi nulla a
parte due cambi di vestiti e oggetti
vari che sarebbero serviti nella nuova casa in parte già imballati. Albertina non aveva ancora trovato
il coraggio di informare il marito che,
presto, ci sarebbe stata un’altra bocca da sfamare. Romedio spalancò la porta di casa e, entrato in
cucina, dove stavano tutti radunati, disse
solo: «Dopodomani si parte». Nella cucina
dalle pareti annerite dal fumo scese un silenzio irreale. Rimasero tutto lì, con le mani in mano, muti
e a occhi bassi, anche i bambini che,
per quanto piccoli, sembravano aver capito. I vecchi piangevano, pensando a quanto tempo sarebbe trascorso prima
di essere ancora riuniti, tutti insieme,
come in quel momento. E allora Romedio capì
che, nonostante le loro cose fossero impacchettate da qualche settimana, nonostante avesse spiegato a moglie e
genitori che quella sarebbe stata una
separazione temporanea, non erano pronti. D’altra parte non poteva biasimarli: in fondo non lo era
neppure lui. Se solo non ci fosse stata
la miseria, se solo i tempi non fossero stati così duri. Se solo avesse avuto la possibilità di rimanere lì,
nell’unico posto che sentiva di poter
chiamare casa. Bartolomeo gli aveva scritto di portare un abito buono perché nel girare per paesi a vendere o
riparare il rame avrebbero avuto a che
fare con la gente e bisognava rendersi rispettabili. Romedio aveva un unico vestito buono, per la festa,
comprato tre anni prima. Non aveva
denaro da spendere per un abito nuovo, perciò lo fece sistemare dalla sarta del paese. Così nella valigia
preparata per il viaggio trovò posto il
completo scuro giacca pantalone che la domenica indossava con il cappello dello stesso colore portato un
po’ di sbieco e che, insieme ad una
camicia e una cravatta chiara sarebbe stata la sua divisa da lavoro. Albertina aveva preparato le cose dei bambini
con un groppo in gola, badando bene a
non farsi scoprire mentre calde lacrime le scendevano lungo le guance quando pensava all’abbandono
del paese e della valle. Mezzana non era
il suo paese di nascita, ci era arrivata dopo aver sposato Romedio da un borgo poco lontano dove ogni
anno si festeggiava Sant’Agata, patrona
della comunità. Quelle festività erano le uniche occasioni in cui alle ragazze era concesso un po’ di
svago e dove era possibile conoscere
nuova gente. A Sant’Agata, che si festeggiava il 5 febbraio, la giornata prevedeva la Messa la mattina e il
Vespro la sera mentre, nel pomeriggio,
la banda suonava e si improvvisavano balli e canzoni in piazza. Non era raro che nevicasse o fosse
troppo freddo per stare all’aperto, e
allora la festa si teneva all’interno dell’osteria con qualche bicchiere di vin brulè a scaldare gli animi. Albertina
era una ragazza un po’ in carne, con un
viso rotondo a incorniciare lunghi capelli castani che le ricadevano sulle spalle. La bocca sottile e
gli occhi piccoli e scuri le conferivano
un non so che di misterioso ma anche un piglio deciso. Proprio a Sant’Agata aveva conosciuto Romedio. Era il
1885 e lei doveva compiere a maggio
ventisei anni. Era stata trascinata alla sagra, controvoglia, da alcune ragazze della sua età desiderose di
divertirsi e, per un giorno, non pensare
alla fatica del vivere. Fin da bambine erano abituate a sgobbare in casa e nella stalla dalla mattina alla
sera, a zappare, coltivare, sarchiare, a
tosare le pecore, a mungere le vacche, a filare la lana, a lavorare insomma con qualsiasi tempo e stagione, anche
la domenica e, quando era proprio
necessario, anche in caso di malattia non grave. Poiché le uniche malattie classificate in questo
modo erano la malaria, la spagnola e il
vaiolo, avevano poche speranze di sottrarsi ai loro doveri. A parte quando era Sant’Agata e il pomeriggio
poteva essere occupato da balli e
incontri più o meno interessanti. In quell’occasione però Albertina era stanca dalla notte prima, quando con i
genitori era rimasta sveglia perché la
vacca doveva partorire ma il vitello non ne voleva sapere di nascere. Perdere un capo di bestiame
significava in molti casi la rovina di
una famiglia, già di per sé povera. Per questo gli animali erano curati con attenzione: la sopravvivenza di
una vacca, di un maiale voleva dire la
possibilità di mangiare. Alla fine dopo ore di tribolazione il padre era riuscito a tirar fuori il vitello che
stava per soffocare e, invece, era sopravvissuto.
A quel punto era l’alba, già l’ora di mungere. La madre era andata in cucina a metter su un po’ di
caffè e, subito dopo, il lavoro era
ripreso. Albertina, stanca e assonnata, desiderava solamente andare a dormire ma le amiche avevano tanto
insistito e, alla fine, si era ritrovata
in piazza senza sapere come. Mentre le ragazze ballavano con alcuni giovanotti venuti dai paesi vicini, Albertina
sedeva sola sul muretto di sassi a
margine della strada, sentendosi fuori posto e avvilita perché nessuno l’aveva invitata a ballare. Rimuginando su
questo, non si accorse di essersi
addormentata. La svegliarono alcuni leggeri colpetti sulla spalla. Un ragazzo, davanti a lei, piuttosto
alto e magro, capelli corti e neri e
baffi ben curati, si tolse il cappello e si scusò per quella libertà che si era preso. Albertina rise pensando che, se
non l’avesse fatto, si sarebbe probabilmente
messa a russare davanti a tutti. Si alzò, sistemandosi la gonna con le mani. «Sarà meglio che mi avvii verso casa» disse,
cominciando a sentire un po’ di vergogna
per quanto era accaduto. Il ragazzo, che
pareva sentirsi fuori posto quanto lei, si offrì di accompagnarla. Lei non rifiutò, dopotutto cosa poteva
esserci di male? si allontanarono dalla
piazza diretti al paese di Mestriago dove lei viveva. Ad un certo punto lei gli porse la mano: «Sono Albertina» si presentò. Lui, sorpreso e un po’ confuso da
quell’iniziativa (stava pensando da un
po’ a come farle conoscere il suo nome) rispose: «Romedio». Proseguirono parlando del più e del meno
quando, arrivati sulla porta di casa,
lui chiese se poteva rivederla. Albertina disse che, se voleva, la domenica dopo potevano vedersi a Messa. La
settimana dopo Romedio sedeva in uno dei
banchi di legno della chiesa di San Giovanni
Battista e Albertina si era messa il fazzoletto buono solo per lui.
L’anno dopo erano ancora a Sant’Agata,
ma da marito e moglie e Albertina era arrivata
con il carro da Mezzana. Nella grande
casa di pietra nella parte alta del paese si era subito trovata a suo agio. Con Albertina e Romedio vivevano
anche i genitori di lui, Giacomo e
Caterina, che avevano accolto calorosamente la nuora. Da parte sua Albertina si era presto
affezionata ai suoceri e inoltre la casa
era grande e consentiva di avere i propri spazi. C’erano le vacche da accudire nella stalla raggiungibile da una
scala di pietra che partiva poco dopo
l’ingresso e che portava anche dalle pecore, ai recinti delle galline e dei conigli ed alle cantine. Il
lavoro non mancava, ma Albertina era
abituata alla fatica. Di tanto in tanto percorreva la stradina che partiva dalla casa e raggiungeva i prati e i boschi
sotto la frazione di Roncio. Non
camminava mai fino alla fine, solo quel tanto che bastava per vedere in lontananza le case del suo paese che aveva
sempre nel cuore. I primi tempi erano
trascorsi sereni nonostante la povertà e Albertina si era fatta benvolere da quanti abitavano quel rione. Le donne si riunivano a lavare i panni nella
fontana adiacente al ponte di legno che
portava nell’aia dove di sera si tenevano filò che duravano ore. Si parlava del più e del meno, ma ad
Albertina quelle riunioni erano servite
per capire molte cose del paese e dei suoi abitanti. Con un po’ di coraggio dopo la timidezza iniziale,
anche lei aveva iniziato a raccontare episodi
del suo paese integrandosi in quel circolo di donne e uomini che sarebbero stati i suoi vicini da lì in
avanti. Nel 1886 ci fu un’epidemia di
colera. La gente era terrorizzata dalle epidemie,
che già in passato avevano colpito la popolazione, come il colera nel ’73, la scarlattina e, prima ancora, il
vaiolo nero che aveva ucciso alcune
persone tra atroci sofferenze. La paura del contagio era così radicata che nella precedente epidemia l’autorità
comunale aveva deliberato l’obbligo di
disinfezione per tutti gli individui che arrivavano da fuori distretto e intendevano fermarsi in
paese o semplicemente passare. Le case
del paese colpite dal colera erano evitate da tutti, tranne dal medico che, giungendo dal paese di Cusiano a
cavallo, bussava a quegli usci con la
borsa sotto braccio e una certa apprensione. Pochi sopravvivevano. Chi aveva il colera passava giorni con la
febbre alta alternata a brividi di
freddo, in quasi completa disidratazione e affetto da crampi muscolari. Al terzo giorno in quello stato, i
casi meno gravi cominciavano a
risolversi. Ma quasi nessuno era sfuggito alla morte. La gente sapeva che la febbre e i brividi erano alcuni
sintomi della malattia e capitava sempre
qualcuno che, sentendosi la temperatura del corpo più alta del normale e constatato che si trattava
di febbre, dopo un po’ era convinto di
tremare di freddo e si diagnosticava da sé di avere il colera. In realtà molte volte era influenza e la
paura del contagio favoriva quella sorta
di autosuggestione. D’altra parte anche l’influenza aveva mietuto parecchie vittime e il timore non era
quindi del tutto infondato. Quel primo
anno nella nuova casa di Albertina fu segnato dalla morte di alcuni vicini vittime del morbo. Per primo
c’era stato Candido, l’uomo che abitava
nella casa sopra la fontana, portato via in una settimana. Poi l’avevano seguito Serafina, Paolo, Luigia.
Tutte persone sui quarant’anni che fino
a poco prima avevano sempre goduto di buona salute e poi, da un giorno all’altro, erano deperite fino alla
morte. Il rione appariva deserto. A
parte la necessità di uscire per lavorare nei campi o per pascolare le bestie, nessuno più si fermava alla
fontana o per le strade a fare due
parole, nel terrore di contrarre la malattia. Don Giovanni, in accordo con il medico, aveva deciso di creare un
lazzaretto provvisorio in cui ospitare i
malati. Si trovò l’accordo con il proprietario di un maso isolato al paese, vicino al bosco, raggiungibile da
una stradina ripida che partiva dalle
segherie. Così un mattino tutti i malati, adagiati sui carri trainati dai cavalli, furono portati via dalle loro
case verso il nuovo ricovero. Albertina e
Romedio, fermi sul portone di casa, avevano osservato la mesta processione passare anche dal loro rione e
avevano azzardato un cenno di saluto ai
malati che sfilavano davanti a loro. Nessuno aveva risposto, o perché troppo deboli o per la febbre che
confondeva le cose e non permetteva loro
di capire che cosa stava accadendo. Albertina, sospirando, tornò sui suoi passi ed entrò in cucina. «Sono andati?» chiese la suocera che non
aveva osato assistere al passaggio dei
carri. «Sì» rispose Albertina sedendosi
sulla panca vicino al focolare «speriamo
siano gli ultimi». Albertina viveva ormai nella paura di prendere quella malattia ed essere allontanata da
tutti, rinchiusa nella solitudine del
lazzaretto. «Adesso, Albertina,
cominceranno i falò, come hanno sempre fatto»
commentò la suocera, ricordando come, anche nelle epidemie precedenti, tutto ciò che era stato a contatto con il
malato era stato bruciato. Non passò
qualche ora che, dalla piazzetta in cima al paese dove si lavorava il ferro, si alzarono alte le
fiamme. I familiari dei contagiati avevano
accatastato insieme tutti gli indumenti, le lenzuola, i letti e gli
oggetti toccati dai loro congiunti.
Romedio e Albertina, come molti altri dalle
case vicine, osservavano in silenzio il rogo. I modesti giacigli di legno si sfaldavano velocemente insieme alla
biancheria del malato e a messali,
libretti, qualche immagine cara che i contagiati avevano tenuto con sé sperando di trarne conforto. Lo
spettacolo, unito alla processione dei
malati condotti via poco prima, aveva lasciato tutti gli abitanti increduli e sconfortati. Romedio staccò gli occhi dalla
pira ardente, alimentata di continuo
dagli oggetti dei malati e si rivolse alla moglie: «Vieni via. Andiamo a casa» le disse, rendendosi conto
che la moglie era sconvolta. Sapevano
tutti che quasi nessuno dei malati sarebbe tornato dal lazzaretto. Eppure c’era nell’aria una specie di vergogna
per aver bruciato tutto ciò che
apparteneva a quella gente e anche se non sarebbe tornata a reclamare, la sensazione era quella di aver dato atto ad
una profanazione. Come se non bastasse,
a quella tragedia era seguito un inverno che
non ne voleva sapere di terminare. I primi fiocchi erano caduti già ai primi di ottobre e a fine mese la neve aveva
bloccato le strade e costretto tutti a
rintanarsi in casa. Ne era caduta tanta che non fu possibile nem meno celebrare la funzione per Ognissanti al
cimitero. Dal balcone in legno della
casa Romedio, la moglie e i genitori avevano guardato più giù, verso il camposanto, e recitato qualche
preghiera per i loro morti. Di più non
si poteva fare. Le nevicate si erano susseguite numerose tanto che alla fine fu necessario scavare dei veri
e propri tunnel nella neve per spostarsi
e fino a marzo l’inverno non ne aveva voluto sapere di allentare un po’ la sua morsa. Faceva freddo tanto che
la legna accatastata in previsione dei
mesi più rigidi a molti non era bastata e verso febbraio erano stati costretti a togliere le porte dai
cardini e bruciare anche quelle. Alla fine
anche l’ultima neve si era sciolta ma il terreno rimase duro per settimane e fu impossibile iniziare i lavori nei campi
e nell’orto. Quando finalmente arrivò la
primavera e poi l’estate, nonostante la buona volontà dei contadini la terra non riuscì a produrre
quasi nulla. L’erba era scarsa e il
fieno che si falciò per gli animali talmente poco che molte bestie perirono di denutrizione. Cominciò in questo modo il
periodo di miseria che costrinse molti
ad emigrare altrove alla ricerca di un lavoro. Non era la prima volta che accadeva. Già all’inizio
dell’Ottocento in tutta la valle intere
famiglie avevano abbandonato i loro paesi per stabilirsi in America o in Australia in cerca di fortuna. Qualcuno
dopo un po’ di anni era tornato in
valle, con un po’ più di soldi in saccoccia e l’esperienza di chi ha visto il mondo. Ma la maggior parte, se
riusciva a stare meglio, non tornava più.
Sulla nostalgia prevaleva la troppa paura di ripiombare nella miseria e di assaggiare ancora l’amaro
sapore della fame. In seguito, dopo gli
anni Settanta, aveva cominciato a diffondersi l’uso di lavorare come emigranti stagionali in zone più vicine a
casa come la Pianura Padana e varie
regioni italiane. Erano sempre dei posti lontani, rispetto a quella loro valle posta sotto il
controllo degli Asburgo, per quanti si
caricavano lo zaino in spalla e, valigia in mano, partivano dai luoghi della loro infanzia, ma almeno era
possibile tornare in paese ai primi
freddi. Si lavorava come ramai, detti “paroloti” , nel commercio ambulante, come arrotini, salumai, segantini,
intessendo contatti che permettevano
spesso agli emigranti dello stesso paese di aiutarsi a vicenda. Era accaduto così anche a Bartolomeo, partito
per la Toscana grazie all’aiuto di un
altro emigrante suo compaesano che gli aveva indicato i posti dove la richiesta di oggetti di rame
era maggiore. All’inizio era partito da
solo, ritornando in paese ad ottobre e ripartendo in primavera. In seguito però la necessità di non perdere
la clientela l’aveva spinto a mettere su
una sua attività commerciale ambulante piuttosto ben avviata che non gli permetteva più di allontanarsi.
Così la moglie e i figli l’avevano raggiunto
e ormai vivevano a Monte San Savino da cinque anni. A casa di Romedio e Albertina nel frattempo
erano arrivati due bambini: Marina e
Giovanni e ormai la preoccupazione per quella situazione di povertà era costante. In casa ora erano in
sei, c’era poco lavoro e i prodotti dei
campi e dell’orto bastavano appena a sfamarli. Romedio, che sapeva fare un po’ di tutto, insieme al padre
si era ingegnato in differenti lavori di
tipo occasionale, offrendosi come manovale, aggiustando pentole, portando al pascolo pecore e capre. Tuttavia
i fiorini che riusciva a guadagnare
erano sempre troppo pochi, i bambini crescevano emaciati e ormai in tavola si portava quasi sempre
latte e qualche fetta di polenta, niente
più. I genitori avrebbero potuto cavarsela meglio senza loro quattro e lui, emigrando in qualche posto non troppo
lontano, avrebbe garantito una vita più
dignitosa ad Albertina e ai bambini. Poi, qualche soldo si poteva spedire anche a casa.
Nonostante questi ragionamenti su cui si
arrovellava da mesi, Romedio aveva tergiversato a lungo prima di prendere quella decisione. Ogni volta trovava una scusa per rimandare: i
bambini ancora troppo piccoli, la brutta
stagione, qualche malanno dei suoi. Sapeva che quella era l’unica soluzione per uscire dalla
miseria, ma non riusciva a tollerare l’idea
di lasciare il paese, i suoi affetti, tutto. Fino alla domenica in cui, sentendo i discorsi sul sagrato, aveva capito
che era giunto il momento anche per lui
di staccarsi da ogni cosa. Si era messo in contatto con Bartolomeo giurando a se stesso che non avrebbe fatto la
sua fine, non si sarebbe stabilito per
anni in un posto e appena possibile sarebbe tornato a casa. Ne aveva parlato ai genitori che
avrebbero voluto aiutarlo ma purtroppo
non avevano i mezzi, ad Albertina che si era detta fin da subito pronta a seguirlo ovunque, perfino ai bambini
che, anche se troppo piccoli, dovevano
sapere e ricordare da dove provenivano. Quando
venne il momento però, la partenza sembrò più un addio che un
arrivederci. Avevano sistemato pacchi e
provviste sul carro già la sera prima, quando
nella cucina Romedio ricordò ai genitori più e più volte il nome del luogo in cui sarebbe stato con la
famiglia, dimentico che già aveva scritto
l’indirizzo almeno una decina di volte su un quadernino a quadretti che in casa serviva per annotare appunti sui
prezzi del bestiame ed altre faccende
del genere. Erano arrivati anche i genitori e i fratelli di Albertina per salutarla visto che il giorno
dopo sarebbero partiti presto per
falciare i prati. Anche i bambini erano rimasti svegli, quella sera, forse per aver percepito che qualcosa
d’importante stava per accadere. Nessuno
era stato capace di dire granché. Erano tutti lì colmi di commozione ma i sentimenti che li univano, sottintesi e
sempre trattati con grande discrezione,
non potevano esser messi in piazza. Avevano bevuto un bicchiere di vino, parlato del raccolto di
quella stagione, della festa di San
Matteo che quell’anno a causa della moria di bestiame rischiava di non essere organizzata. A parte Romedio
che, come se avesse perso la memoria
delle sue azioni seguitava a ricordare agli altri l’indirizzo del loro soggiorno toscano, non si toccò
l’argomento della partenza per tutta la
serata. Solo al momento di congedarsi dalla famiglia Albertina sentì più forti le strette di mano e gli abbracci
dei suoi e i loro occhi soffermarsi di
più nei suoi. Li lasciò andare facendo segno di sì con la testa, come se gli altri le avessero raccomandato di
tornare presto, ma in realtà non aveva
parlato nessuno. Nella grande casa di pietra nessuno, ad eccezione dei bambini, riuscì a dormire quella notte.
Romedio pensava alla sua infanzia in
quei vicoli, quelle strade, tra quella gente, pensava agli odori, i sapori, i profumi e i suoni che
sempre l’avevano accompagnato come una
melodia da quando aveva aperto gli occhi, sempre uguali e per questo ancora più cari. Albertina portava dentro di sé un dolore
doppio, quello per l’abbandono del paese
natio e di quello che aveva appena imparato a conoscere. Pensavano entrambi a come sarebbero cresciuti
i loro figli, sradicati dalle loro
radici, probabilmente senza il ricordo dei luoghi che li avevano visti nascere e pensavano che dovevano iniziare
subito a raccontare del paese e
scongiurare così il pericolo che, divenuti più grandicelli, non ne sapessero nulla. Si addormentarono brevemente solo quando
ebbero lo stesso pensiero, il piccolo
conforto nello sperare che la loro vita in terra toscana non sarebbe durata che qualche anno e che, un
giorno neppure troppo lontano, avrebbero
percorso lo stesso itinerario al contrario. Fu la madre di Romedio la prima ad alzarsi quella
mattina. Sul focolare aveva preparato di
buon’ora il latte per la colazione, cercando di non pensare che quelle erano le ultime ore con suo figlio e i
suoi nipoti. Sapeva che l’intenzione di
Romedio era quella di non stabilirsi in Toscana a lungo, ma non si poteva mai sapere come sarebbero
andate le cose. Magari la prosperità dei
luoghi che si accingevano a raggiungere era tale da far dimenticare quei buoni propositi. Non era la prima volta
e non sarebbe stata l’ultima che degli
emigranti decisi a tornare quanto prima al paese poi non si erano mai più visti. Il padre di
Romedio, fingendo di dover controllare
il cavallo prima della partenza di figlio e nuora nascose un sacchettino di tela marrone con pochi fiorini
tra i pacchi riposti il giorno precedente.
Non era molto ma sapeva che alla famigliola sarebbe servito. In quelle settimane, mentre il figlio
imparava il mestiere da Bortolo ferraio,
lui aveva aiutato alcune famiglie impegnate a tagliare le piante per la legna nel bosco ed era riuscito a
racimolare qualcosa. Romedio e Albertina,
una volta alzati, avevano preparato i figli e preso le loro ultime cose. Albertina si guardava intorno in quella
casa come a voler fissare ogni
particolare nella sua mente, Romedio appariva quasi scontroso, burbero, ed era il suo modo per prendere le
distanze da quanto stava accadendo. Consumarono
in silenzio la colazione e, quando uscirono dal
portone d’ingresso, trovarono radunati sulla via tutti gli abitanti del rione. Salutarono tutti ringraziandoli per
quell’improvvisata, senza versare lacrime
che invece sgorgavano dagli occhi di molti.
I nonni salutarono Marina e Giovanni che con le loro manine continuavano a fare ciao alla gente senza rendersi conto
che quella non era una gita. Poi Romedio
li caricò sul carro e, mentre Albertina li raggiungeva dopo aver salutato i suoceri, tornò verso i
genitori. Strinse la mano al padre,
abbracciò la madre con fare un po’ freddo; i genitori se ne accorsero e provarono dolore per quel comportamento
distaccato del figlio. Il carro si mise
infine in marcia tra la folla. Albertina, che sedeva dietro con i figli, spostando un pacco notò il
sacchettino e lo porse a Romedio. Questi
lo prese, lo aprì e, con le lacrime agli occhi, capì che era stato suo padre a nascondere quei fiorini. Erano
già sulla strada per il cimitero quando Romedio,
fermando il carro con l’intenzione di rimediare al saluto frettoloso che si era costretto a riservare
al padre e alla madre, li vide fermi, in
cima alla strada, che lo guardavano andarsene, in silenzio. Allora si alzò in piedi sul carro, sventolò
energicamente una mano e il cappello che
aveva in testa e gridò con fare canzonatorio: «Guardate che torno, eh!» .
I genitori, rinfrancati un po’ da quelle parole, un po’ dal fatto di
vederlo comportarsi con loro di nuovo
come al solito, risposero al saluto e lo
seguirono con lo sguardo fin dopo la curva e, dopo ancora, dalla stradina che guardava verso Commezzadura. Arrivati a
Mestriago, Albertina guardò speranzosa
verso la sua casa. Sapeva che i suoi erano nei campi, sapeva che sulla finestra non ci poteva
essere nessuno. Eppure guardò lo stesso,
perché era la sua casa. Come previsto non c’era nessuno, le imposte erano accostate per non fare entrare il caldo
soffocante di quei giorni. Albertina ne
rimase molto delusa, aveva sperato di vedere ancora una volta almeno sua madre. Romedio non si
fermò, aveva notato la delusione della
moglie e voleva allontanarsi il prima possibile per non farla soffrire ancora di più. Spronò il cavallo a
proseguire ma, quando stavano per
lasciare il paese, li videro sulla strada.
«Se avessi immaginato che ti avrebbe portato così lontano, stai sicura che non ti lasciavo andare alla festa di
Sant’Agata» scherzò il padre. Tutti risero
e la tensione si allentò un po’. Erano
tutti lì, i genitori, i fratelli, i paesani che avevano vissuto con lei nella stessa contrada. Albertina,
accorgendosi di non essere stata dimenticata,
ne fu profondamente commossa. Giovanni, credendo di essere già arrivato a destinazione, riuscì a
scendere dal carro e scappare nei prati
e solo alla fine, quando si erano rinnovati i saluti e le racco- mandazioni, fu riacciuffato e rimesso nel
carro con la sorella che era invece rimasta
ad ascoltare i discorsi degli adulti. Quando si sedettero di nuovo, pronti a ripartire, la madre allungò
un pacchetto ad Albertina. «Vedi di
tenerlo bene, che non si dica che i montanari sono dei poveretti. E cerca di averlo ancora per quando torni». Albertina aprì il pacchetto e vi trovò dentro
un fazzoletto della domenica, da mettere
intorno ai capelli, ricamato con le sue iniziali. Cercò di ringraziare la madre ma un nodo le
chiudeva la gola. Salutò con la mano,
senza dire niente, mentre il carro ripartiva. Solo allora iniziò a piangere, singhiozzando, imitata da Romedio
che ormai non riusciva più a
trattenersi. Passò molto tempo prima che riuscissero di nuovo a parlare.
CAPITOLO 3
Dopo quei momenti di profonda commozione e già di nostalgia per quanto lasciavano, superato l’antico
ponte che separava da secoli la valle da
quella confinante, Romedio e Albertina scoprirono a poco a poco un mondo di cui ignoravano l’esistenza.
Solo Romedio una volta si era
avventurato oltre i paesi della valle e per entrambi ciò che gli occhi scorgevano mentre il carro avanzava
rappresentava una novità. Videro altre
montagne ed altri paesi, dapprima simili al loro poi più estesi, videro il torrente Noce correre tra i sassi tra
strette gole e pendii e aprirsi invece,
tra i campi, il placido Adige. La gente li osservava passare curiosa, qualcuno accennava un saluto. Man mano che si
abbassavano di quota scorgevano nuove
colture e un nuovo clima mite ben diverso dall’aria fresca dell’alta montagna. Si erano
organizzati alla meglio, portando provviste
per il viaggio e un telo da stendere sopra il carro sotto cui ripararsi di notte e per fortuna il tempo
era stato clemente e non avevano avuto
il fastidio della pioggia. Si fermavano per mangiare, sgranchirsi le gambe e consentire ai bambini di correre
un po’ dopo tante ore fermi. Romedio e
Albertina, come in un tacito accordo, non avevano più parlato del paese, discutevano invece su ciò
che li attendeva e come si sarebbero
sistemati una volta arrivati a Monte San Savino. Del posto sapevano poco, perché Bartolomeo si era limitato a
scrivere notizie che riguardavano prevalentemente
il lavoro, la richiesta di rame tra i villaggi,
la casetta che era pronta per loro.
«Che dite, ci saranno anche lì gli abeti e i larici come nei nostri
boschi? » aveva chiesto ad un certo
punto Albertina, che amava l’ambiente in
cui era cresciuta fino ad allora e sperava di ritrovarlo anche nella nuova terra che li avrebbe ospitati a breve. Romedio, che teneva le briglie del cavallo
ormai stanco dopo ore e ore di cammino,
restò zitto per un po’. Poi, continuando a guardare dritto davanti a sé rispose: «Non so. Ma
credo non ci siano neanche le montagne»
disse con un sospiro. Albertina,
costernata, l’aveva guardato bene in viso per capire se scherzasse. Le pareva incredibile che potesse
esistere un luogo privo di cime. Da
quando aveva aperto gli occhi sul mondo le aveva sempre viste, come sarebbe stato vivere senza quella
presenza che lei aveva sempre dato per
scontata? «Ci saranno molte cose a cui
dovremo abituarci» disse infine Albertina.
Intuiva che stava per iniziare per tutti loro una vita differente da quella che avevano conosciuto fino ad allora.
Anche il paesaggio sarebbe stato
diverso, e la gente, e i costumi. Romedio
non rispose. Non le accennò delle cartoline che gli aveva mostrato Menico, una delle ultime domeniche
al paese, spedita dalla Toscana in
Trentino da alcuni emigranti stagionali. L’immagine stampata sul fronte non era di Monte San Savino, ma
pur sempre di uno dei paesi in provincia
di Arezzo, anzi della stessa valle che comprendeva anche quel comune. Si vedevano case, prati e ancora
case e prati e colline qua e là,
l’occhio spaziava senza ostacoli e la terra si congiungeva con il cielo e le nuvole. Romedio ne era rimasto
impressionato senza sapere perché. Solo
più tardi, ragionando su ciò che aveva visto, finalmente aveva capito: le montagne non c’erano. La scoperta l’aveva
scosso profondamente. Si era chiesto
come si potesse vivere in un posto senza la
protezione delle montagne, in un mondo piatto modellato solo da dolci collinette. Insieme alle montagne non ci
sarebbe stata la vegetazione che
caratterizzava la sua valle e chissà che alberi avrebbero sostituito i pini, i larici, gli abeti, i noccioli, le
betulle, i faggi. Chissà che animali abitavano
quei posti, chissà quali feste celebrava la gente, che cosa mangiava, come si vestiva, come parlava. Spaventato da una tale prospettiva di
cambiamento, Romedio aveva quasi deciso
di rinunciare al viaggio. Poi però la necessità di uscire dalla loro condizione di miseria aveva avuto la
meglio, ed erano partiti. Romedio si era
imposto di non raccontare alla moglie le sue scoperte per non renderle ancora più penoso il distacco e
la reazione della moglie alla risposta
sulle piante l’aveva convinto che era stato meglio così. I giorni passavano lenti sul carro. Romedio
doveva fermarsi sempre più spesso per
abbeverare il cavallo a qualche fontana, perché il caldo stava diventando insopportabile. Mentre lui
svolgeva quel compito non era raro che
Giovanni e Marina trovassero altri bambini con cui giocare, in attesa di ripartire, e che Albertina si
mettesse a raccontare del loro viaggio
ai curiosi che incontravano sulle piazze e che, saputo della loro odissea, a volte offrivano loro pane a
formaggio. Si rendevano conto di avere
un aspetto pietoso, nonostante tutte le sere cercassero di lavarsi alla bell’e meglio vicino ai fiumi che
incontravano. Ma erano in viaggio da
oltre una settimana e la polvere delle strade sollevata dal passaggio del carro aveva intriso i loro capelli e i
loro vestiti. Inoltre erano stanchi, provati
dal sole che incessantemente batteva sulle loro teste, dai lamenti di Giovanni e Marina che volevano scendere e
non potevano, dalla mancanza di un letto
su cui riposare. Pareva loro che quel cammino fosse eterno e che mai sarebbero giunti a
destinazione. Ma quindici giorni dopo
aver intrapreso il viaggio, giunsero a Monte San Savino una domenica. Albertina stava zitta da quando, svegliandosi
diversi giorni addietro, aveva notato sconvolta che effettivamente le montagne
non c’erano più, soppiantate da basse
colline verdi. Romedio a quella vista si era immalinconito a tal punto che in cuor suo malediceva il
giorno in cui aveva deciso di partire e
avrebbe voluto solo girare il carro e tornare indietro. Ma, ormai, erano lì. Il paese non suscitò in
loro nessuna emozione particolare. Era
un villaggio di case basse, con tegole in cotto rosse e ulivi e vigneti si perdevano a vista d’occhio. All’entrata
del paese, dove erano giunti una mattina
presto, ai lati della strada erano stati accolti dagli occhi indagatori di alcuni abitanti fermi ad osservare quella
curiosa famigliola. Si sentivano come
bestie da circo, scrutate da individui sconosciuti pronti a cogliere nei loro gesti qualche
stravaganza capace di suscitare ilarità.
I bambini, solitamente irrequieti, stavano fermi e muti sul carro quasi consapevoli di essere l’oggetto
dell’interesse paesano. Albertina accennò
un saluto cui qualcuno rispose. Le parve un buon segno e si sentì un po’ sollevata alla vista di gente
che conosceva l’educazione. Aveva
immaginato il posto in cui stavano per andare abitato da gente mezza selvaggia, un po’ come stava accadendo
in quel momento alla popolazione di
Monte San Savino che li aveva visti arrivare.
Suo malgrado, le sfuggì un sorriso, pensando a quanto era stata ingenua. D’altra parte, per lei che non era mai uscita
dalla valle, tutto era nuovo e
misterioso: non sapeva che anche molto al di là delle montagne di Trento la gente era come loro. Le pareva
di aver viaggiato come un’avventuriera alla
scoperta di terre remote e si sentiva un poco affranta nel costatare che non avevano scoperto niente di
nuovo. Romedio, lasciate le briglie del
cavallo, scese dal carro per chiedere dove stesse di casa Bartolomeo. Si tolse il cappello e si avvicinò
timidamente ai presenti. «Buongiorno,
sapete dirmi dove abita Bartolomeo Ravelli?» chiese. Bartolomeo, che pur avendo lo stesso cognome
non era suo parente, gli aveva scritto
dove stava di casa ma, una volta giunto in paese Romedio aveva perso del tutto il senso
dell’orientamento. Si guardava intorno alla
ricerca della casetta bianca dalle imposte rosse ma ogni abitazione gli pareva identica all’altra. Ci fu un certo brusio non appena Romedio
scandì le parole. Alcuni ragazzini
presero a fargli il verso, imitando la cadenza della sua pronuncia, tanto diversa dalla loro. Per un momento
nessuno parlò. Romedio si guardava
intorno senza sapere che fare, finché dal gruppo si staccò un uomo dalla faccia bonaria che sorrise a Romedio
incoraggiante. «Vi ci porto io, da
Bartolomeo. Abita proprio accanto a casa mia, in via Seteria. Venite su, che sarete stanchi»
ripose. «Grazie, salga sul carro che
facciamo prima» disse Romedio, contento di
aver trovato qualcuno in grado di aiutarlo.
L’uomo si accomodò e, esauriti i convenevoli, li guidò per una viuzza stretta lastricata di sassi. Intanto, Romedio
pensava alla buffa parlata di quella
gente. Anche lui avrebbe avuto voglia di far loro il verso. Il carro proseguiva spedito mentre l’uomo, che
rispondeva al nome di Andrea, interrogava
i nuovi venuti. Nel frattempo sugli usci e dietro alle finestre delle case erano comparsi altri curiosi. «Sicché venite dal Trentino, come Bartolomeo,
del resto». «Sì, proprio dal suo stesso
paese. È stato lui a dirmi di venire qui.
Cerco lavoro» disse Romedio. «L’avevo
capito. Non si lascia la propria terra se non per un motivo grave. E la miseria è forse il più grave di
tutti». Romedio annuì, pensando ai suoi.
Aveva promesso di scrivere non appena
arrivati in Toscana. Sapeva che al paese i genitori erano preoccupati e attendevano con ansia notizie sue e della
sua famiglia. L’uomo intanto li
osservava con fare amichevole. Ne aveva vista parecchia di gente così, in cerca di una vita migliore
lontana dalla miseria, ed era gente che
lo inteneriva per l’ingenuità ma al contempo la determinazione con cui si muoveva in un luogo che non era il
proprio. Guardò i bambini che dopo quel
viaggio durato troppi giorni non sembravano più avere neppure la forza di parlare e provò pena per
loro. Nel frattempo il carro avanzava
per le vie del centro seguendo le istruzioni impartite dall’uomo. Anche inoltrandosi per le strade la
situazione non era cambiata e dalle
finestre e dagli usci si vedevano ovunque persone intente a scrutare i nuovi venuti, provocando in Albertina un
senso crescente di disagio. Pensava al
paese, dove tutti si conoscevano e non c’erano occhiate curiose a seguirti ad ogni passo e la gente
parlava lo stesso dialetto senza che
nessuno si burlasse per una pronuncia diversa. Era tra la sua gente allora, ora non lo era più. La malinconia si fece strada nel suo cuore e
si chiese se sarebbero riusciti a vivere
in quel luogo. Sperava di sì ma allo stesso tempo desiderava il contrario: se Romedio si fosse reso conto
che le cose non andavano, forse
sarebbero tornati tutti a casa in breve tempo.
Si vergognava dei propri pensieri e non li avrebbe mai espressi ad alta voce, eppure non poteva impedirsi di
tornare con la mente a quella possibilità
di fuga. Romedio intanto rispondeva alle domande dell’accompagnatore sempre più agitato: non era abituato a
raccontare i fatti suoi al primo venuto
e ne era un po’ infastidito anche se cercava di non darlo a vedere. Inoltre era stanco, affamato
e preoccupato per la sorte della sua
famiglia. Tutte cose che la guida aveva inteso perfettamente poiché da tempo conosceva il carattere
riservato della gente di montagna, ma
aveva intavolato un discorso solamente per farli sentire più a loro agio in mezzo a quella folla di curiosi.
Si rese conto però che quello non era il
momento giusto per cercare di familiarizzare e non chiese più nulla, limitandosi a dire dove svoltare per
raggiungere la casetta. Il carro si
mosse in quell’intrico di viuzze fino a giungere davanti ad un’abitazione bianca con le imposte rosse, proprio come era
stata descritta da Bartolomeo nelle
lettere a Romedio, ma la porta era chiusa e così le finestre. Romedio ebbe un attimo di terrore: e se non
avesse trovato l’amico, cosa avrebbe
potuto fare in quella terra sconosciuta? Iniziò a sudare freddo e non era certo colpa del
clima. «Eccoli qui! ce ne avete messo di
tempo!». Una voce proveniente dal fondo
della strada scosse Romedio dalle sue
tristi riflessioni. Romedio e Albertina scesero con un balzo dal carro, correndo nella direzione dell’uomo e gli si
gettarono letteralmente addosso una
volta raggiunto, quasi fosse l’unica ancora di salvezza per non perdersi in quel luogo. Bartolomeo li
abbracciò commosso. Guardandoli, notò
che anche i suoi compaesani avevano gli occhi rossi. Insieme, sembrava loro di aver ritrovato un pezzo della loro
terra. Provenivano da un identico luogo
ed avevano un passato in comune. Questa sarebbe stata la loro forza. «Via via, non è poi così male qui, una volta
fatta l’abitudine. E la gente non morde»
rise abbracciando con lo sguardo coloro che non avevano tolto gli occhi di dosso ai viaggiatori,
appartati dietro le finestre o, più
spudoratamente, sui balconi e i muretti a fianco delle abitazioni. «Come mai c’è tutta questa gente in giro?»
domandò Romedio. «Perché è domenica»
rispose Bartolomeo, rendendosi conto che
l’amico doveva aver perso la cognizione del tempo. Romedio assentì con il capo e, guardando Albertina, capì che
nemmeno lei si era ricordata che giorno
era. La guida, nel frattempo, si era permessa di far scendere i bambini e si era avvicinata al gruppo. «Caro mio, se continua così andrà a finire
che nel nostro paesello ci saranno più
trentini che toscani» scherzò rivolgendosi a Bartolomeo. «Che vuoi farci, Andrea, se la maestria di
noi 'paroloti' è apprezzata solo qui da
voi?» ironizzò lui a sua volta. Marina e
Giovanni, mentre gli adulti parlavano, si erano seduti su una panca fuori dalla casa, all’ombra, e
guardavano incuriositi i dintorni. Anche
loro si erano accorti dell’assenza delle alte montagne cui erano abituati e osservavano perplessi le basse
colline e i vigneti. Notarono anche
boschi di conifere e latifoglie simili ai boschi della loro valle, ma senza le cime saettanti verso il cielo e
pensarono che non era la stessa cosa.
Bartolomeo li osservava e capiva perfettamente il loro smarrimento, uguale al suo il giorno in cui era arrivato.
Sapeva che ci sarebbe voluto del tempo,
per tutti loro, per ambientarsi. A loro favore c’era la presenza di altri trentini, provenienti dalle
valli, giunti in paese già da qualche
anno, che avrebbero potuto condividere quella nostalgia e quei ricordi con loro pur continuando a vivere a
Monte San Savino. “Su, entriamo in casa.
Beviamo qualcosa e poi vi aiuterò a sistemarvi” disse Bartolomeo aprendo la
porta ed invitando anche Andrea a seguirli. Si accomodarono in una cucina piccola ma
accogliente mentre il padrone di casa si
toglieva il cappello e versava del vino per gli ospiti e succo per i più piccoli. La moglie, disse,
non c’era perché assisteva una donna
malata e sarebbe tornata a sera. Romedio e Albertina non finivano più di ringraziare alternativamente Andrea e
Bartolomeo, finché la guida si spazientì
e disse loro, amichevolmente, che avrebbe accettato volentieri un loro invito per mangiare
insieme la porchetta, famosa da quelle
parti. Bartolomeo mostrò loro la casa, dove aveva ricavato un laboratorio per i suoi manufatti in rame. «Come sei riuscito a fare questa
decorazione?» chiese Romedio soppesando uno
stampo di rame finemente intarsiato. Tutt’intorno al tavolo da lavoro erano esposti paioli, casseruole,
anfore, brocche, recipienti di varia
forma e grandezza e piccoli oggetti da decoro, come scatoline e portapenne, tutto frutto del lavoro dell’amico. «Con il tempo si imparano tante cose. Io
all’inizio sapevo ben poco, sono stati
il lavoro e l’esperienza a insegnarmi tutto. Sarà così anche per te» rispose Bartolomeo. «Lo spero» disse in un soffio Romedio. I bambini si erano ripresi e chiedevano
insistentemente di vedere la nuova casa.
Andrea salutò i nuovi arrivati e si avviò contento per le strade battute dal sole, con un invito a cena
nel prossimo futuro. L’attenzione di
Albertina invece era rivolta ad una fotografia appesa al muro, nel corridoio della casa. Quando il marito le
fu vicino, lo prese per un braccio e gli
ordino: «Guardate!» indicando l’immagine. Romedio si voltò e vide, appesa al muro, una foto del
suo paese. Non era un’immagine di
qualità eppure si distinguevano le case una per una, la chiesa, le frazioni più in alto o forse erano loro che
con il ricordo ne sapevano dare l’esatta
ubicazione. Un nodo gli serrò la gola e dovette far ricorso a tutte le sue forze per non mettersi a singhiozzare
davanti a tutti. Guardò Albertina che
nascondeva una lacrima asciugandosi velocemente il viso con il palmo della mano e giurò a se stesso
che un giorno sarebbe tornato. Forse
sarebbero trascorsi mesi o addirittura anni, ma un giorno sarebbe tornato, per restare. Bartolomeo gli appoggiò
una mano sulla spalla e chiuse la porta
dietro di sé mentre la famiglia si avvicinava al carro, prendeva le sue poche cose e lo
seguiva verso la sua nuova casa. «È qui
vicino, così per qualsiasi cosa potete rivolgervi a me» spiegò Bartolomeo incamminandosi per una stradina.
«Il proprietario torna la prossima
settimana, mi ha lasciato le chiavi». Poco
dopo giunsero in una piazzetta lastricata di ciottoli nel cui centro zampillava acqua da una fontana. Ai lati, le
casette sembravano seguire il perimetro
di una circonferenza segnata anche da grandi alberi che garantivano il fresco. Non era poi così
male, pensarono Romedio e la moglie. «È quella» indicò Bartolomeo. Si trattava di un’abitazione simile a quella
dell’amico, alta e stretta, intonacata
di bianco. C’era anche un piccolo cancello in ferro battuto all’entrata. Giovanni e Marina l’aprirono e
Bartolomeo si fece avanti con le chiavi.
Entrarono e videro che la tavola di legno era stata ingentilita da una tovaglia e piccole composizioni di
fiori. «È stata mia moglie» si affrettò
a spiegare Bartolomeo, mentre i due amici
appoggiavano le valigie e si guardavano attorno. «Ringraziala da parte nostra, è stato un
gesto carino» disse Albertina. «Lo farò.
Vi lascio, ho un po’ di cose da fare a casa. Per qualsiasi cosa, chiamatemi. Con te, Romedio, ci vediamo
domani» rispose Bartolomeo e accennò un
saluto. Romedio lo accompagnò alla porta
e tesagli la mano, strinse con forza quella
dell’amico. Non c’era bisogno di parole, quel gesto racchiudeva tutta la gratitudine di Romedio che, senza
Bartolomeo, in quel paese si sarebbe
sentito perso. «A domani» ripeté
Bartolomeo e lasciò la piazzetta. Dentro,
Romedio e la moglie esplorarono la casa. C’era la camera da letto che, come a casa, avrebbero condiviso
con i bambini, una cucina con finestre
che davano su un bel paesaggio di colline e da cui s’intravedeva il campanile di una chiesa, la stanza da
bagno e uno spazio vuoto che sarebbe servito
come bottega a Romedio. Tutto era stato pulito accuratamente e contribuì alla buona impressione che i
coniugi ebbero dell’abitazione. Tutto sommato, pensarono, quella sistemazione
non era poi tanto male. Iniziarono a
disfare i bagagli e a sistemare le loro cose negli armadi, nei cassetti e nelle cassapanche presenti.
Romedio portò i suoi attrezzi in quello
che sarebbe diventato il suo laboratorio, ripensando ancora alla maestria di Bartolomeo che sapeva
lavorare il rame aggiungendo decorazioni
tanto sofisticate, Albertina estrasse dalla valigia la biancheria, gli asciugamani ricamati da lei
stessa con le sue iniziali, le camicie
da notte e i pochi abiti che possedeva, la sua dote, organizzandoli negli spazi disponibili. Giovanni chiese cosa
ci sarebbe stato per cena e i genitori,
accortisi di aver terminato tutte le provviste durante il viaggio, trovarono in dispensa riso, latte, qualche
salume, dono di Bartolomeo che
evidentemente aveva previsto quell’eventualità. La piccola Marina intanto guardava nella piazzetta cercando di
scorgere qualche altro bambino con cui
giocare, ma fuori non c’era nessuno. Albertina, che era intimidita da quella gente tanto curiosa, guardando la
bambina decise che avrebbe senz’altro
permesso ai suoi figli di giocare con i bambini del paese perché, se si fossero fermati in quel
luogo per molto tempo, non potevano
certo crescere soli, come dei selvaggi. Mentre terminava di sistemare le capitò in mano il fazzoletto della
domenica che sua madre le aveva donato
nel salutarla. Ricacciò indietro la tristezza e disse a Romedio: «Sono già due feste che non andiamo a Messa.
Andiamo in quella chiesa, quella che si
vede dalla finestra, a ringraziare di essere arrivati sani e salvi. Poi scriveremo» disse al
marito, intuendo l’ansia di Romedio di
comunicare notizie a casa. Così si
vestirono con gli abiti della domenica e, senza sapere la strada, si avviarono verso la chiesa di Santa Chiara.
Passò qualcuno per la via e, vedendoli,
i viandanti li salutavano cortesemente, senza più la curiosità morbosa che avevano notato all’inizio. Forse
era stata solamente una loro
impressione, forse quel primo tentativo di ambientarsi stava dando qualche frutto. Una volta tornati a casa,
avrebbero scritto alle rispettive famiglie,
rassicurandole che tutto era andato bene fin lì. Il resto, era tutto ancora da vedere.
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hai visto qui nel report) che è quella ufficiale, ho ancora gli ultimi libri
della versione precedente. Terminati quelli della versione precedente, avrò a
disposizione solo la nuova edizione. Ovviamente qualora fossi interessato alla
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Grazie
per l’interessamento, continua a seguirmi anche su
a presto!
Lara Zavatteri