A ricordo di Raffaella, Giovanni, Tea, Carmen
e
zia Angelina
PERSONAGGI PRINCIPALI
Mezzana, seconda guerra mondiale
Giovanni Ravelli, panettiere e
fotografo del paese
Violante, sua moglie
Giuseppe Ravelli, fratello di
Giovanni
Maria, moglie di Giuseppe
Matilde, sorella di Violante
Raffaella, figlia di Giovanni e
Violante, fidanzata con Giovanni Pedergnana
Adriana, figlia di Raffaella e
Giovanni
Pietro Pedergnana
Lucia, sua moglie
Giovanni, figlio di Pietro e
Lucia e fidanzato di Raffaella
Dorotea (Tea), sorella di
Giovanni (a Gallarate)
Carmen, figlia di Tea
Wanda ed Eva, bambine di Milano
sfollate a Mezzana
Mezzana 2014
Lara, nipote di Raffaella e
Giovanni, figlia di Adriana
Marco Bacchi, storico
Prefazione
Chi dei miei lettori ha già letto
in passato il libro “Reset” troverà in questo libro l’ideale continuazione di
quel testo, con qualche differenza. In “Guardando le stelle” ho eliminato i
riferimenti al futuro con il piano di cancellare i diari e tutto ciò che poteva
ricordare all’uomo che cos’era stato il suo passato, mentre ho mantenuto il
metodo narrativo con l’alternarsi di momenti passati e altri relativi ai nostri
giorni.
I personaggi sono in parte quelli
di Reset, li ritroviamo anni dopo, alla vigilia della seconda guerra mondiale e
protagonisti sono i figli, in particolare si racconta la storia tra Giovanni
(figlio di Pietro Pedergnana di Reset) e Raffaella (figlia di Giovanni Ravelli
e Violante Pangrazzi di Reset) prima, durante e dopo il secondo conflitto
mondiale.
Lo scenario è ancora quello del
paese di Mezzana in val di Sole (Trentino) e tutto ruota su un mistero su cui
si cerca di far luce.
Come per Reset, tutta la
narrazione è vera, si tratta cioè di fatti realmente accaduti. È la storia dei
miei nonni, come Reset era quella dei miei antenati più lontani nel tempo:
resta immutata la mia volontà di ricordare il passato ed è forse questo il filo
conduttore di entrambi i libri.
Chi non ha letto Reset può
leggere questo libro ugualmente, magari non capirà alcuni riferimenti, ma può
essere letto anche come testo a sé.
Con l’augurio di non scordare mai
il passato e le persone che hanno fatto parte della nostra vita.
Lara Zavatteri
Mezzana, gennaio 2014
Lo storico sarebbe passato quella
mattina, approfittando del tempo bello dopo giorni e giorni di nevicate
intense. La storia dei fucili e delle divise tedesche sepolti chissà dove in
quell’aia (o in altro luogo non ancora scoperto) lo aveva affascinato subito,
non appena l’aveva sentita per la prima volta. Aveva desiderato fin da allora capire
come si erano svolti i fatti e, soprattutto, vedere con i suoi occhi quegli
oggetti o ciò che ne rimaneva. Il problema era che la ragazza ne aveva parlato
come una sorta di leggenda o meglio era certa che la storia del nonno fosse
vera ma non aveva idea di dove iniziare le ricerche. A quello avrebbe pensato
lui, si era detto, per non rischiare di trovarsi di fronte a una truffa ben
architettata o a paccottiglia che non valeva niente.
Ora la ragazza stava in casa, in
attesa dell’uomo e si domandava se aveva fatto bene a raccontare quella storia
che risaliva alla fine della seconda guerra mondiale, o se non fosse stato
meglio tacere. In fin dei conti anche se la vicenda era accaduta veramente,
neppure lei aveva la minima idea di dove potevano trovarsi le divise e le armi
dei due tedeschi che avevano chiesto aiuto al nonno per poter fuggire.
Un dilemma che chissà quando si
sarebbe risolto. Intanto, si preparò a parlare con l’uomo, perché dalla
finestra aveva visto la sua auto parcheggiare davanti casa.
Era proprio lui e con una certa
impazienza scese dalla macchina, allora la ragazza gli andò incontro
sull’uscio.
“Buongiorno, signorina” disse
l’uomo.
“Buongiorno, prego, si accomodi”
accennò lei.
“La ringrazio” disse lui.
La ragazza fece strada verso il
salotto e fece segno all’uomo di sedersi sul divano.
“Gradisce del caffè?” domandò
mentre già si stava avvicinando alla caffettiera e al servizio buono che aveva
preparato per l’occasione.
“Sì, la ringrazio, lo bevo
volentieri. Nel frattempo, perché non mi racconta per bene tutta la storia che
mi ha accennato giorni fa?”.
“Zucchero?” rispose lei, come se
non avesse sentito la domanda.
“Sì, uno”.
“Latte?”
“No, grazie” disse lui, che
iniziava a spazientirsi. Ci mancava che chiedesse: “In tazza piccola?
Ristretto?” E sarebbe esploso. Invece la ragazza si avvicinò con tazzina e
piattino che depositò sul tavolino a fianco a lui.
“Prego” disse.
“Grazie” fece lui, iniziando a
sorseggiare.
“Come le dicevo, perché non
inizia a raccontarmi quella storia…” insistette lui, tra una sorsata e l’altra.
“Beva, per il momento, e si
ricordi che anche se la storia è vera potremmo non trovare nulla, com’è stato
per anni e anni” rispose lei.
“Certo, ma forse invece potremmo
avere più fortuna” disse lo storico. Voleva credere che fosse possibile
ritrovare quegli oggetti, oltretutto era una bella storia da raccontare.
La ragazza finì il suo caffè e
poggiò la tazzina sul tavolo, seguita dall’uomo che non vedeva l’ora di sentire
l’intera vicenda.
“Come le ho già detto, la storia
è vera, ma è quasi sicuro che non troveremo nulla di ciò che lei vuole
recuperare con tanto ardore. Anch’io vorrei trovare quegli oggetti, non mi
fraintenda, ma in anni di lavori e ristrutturazioni non è mai saltato fuori
nulla” precisò di nuovo la ragazza.
L’uomo scosse la testa “Va bene,
ho capito. Ma intanto lei mi racconti, poi chissà, non si può mai sapere”.
“Come vuole. Devo iniziare circa
dalla seconda guerra mondiale, quando nell’appartamento a fianco di dove ci
troviamo ora abitavano i miei nonni, Giovanni e Raffaella. Lei era figlia del
fotografo del paese che con la famiglia, da bambino, era emigrato per diversi
anni a Monte San Savino, in provincia di Arezzo, quando qui c’era solo miseria.
Poi la famiglia tornò in paese e non se ne andò più. I miei bisnonni avevano
combattuto la prima guerra mondiale, il padre di mio nonno fu attendente di un
ufficiale ungherese, qui, come lei sa, si era sotto l’Austria in quel periodo.
Dobbiamo tornare appena prima degli anni Quaranta” disse la ragazza e prese a
narrare la storia che l’uomo era arrivato fin lì per sentire, mentre volti,
voci e luoghi di un’altra epoca ritornavano in vita grazie alle sue parole.
Mezzana, 1939
Non aveva ancora ventun anni, ma
Giovanni aveva acconsentito. Si era quasi negli anni Quaranta ormai e bisognava
essere più “aperti”, almeno così diceva sua cognata Matilde. Giovanni, dopo la
fine della prima guerra mondiale, aveva visto lo scioglimento dell’Impero
austro ungarico, il suo paese, Mezzana, in Trentino, passare sotto l’Italia e
aveva avuto tre figli da Violante, la ragazza di cui si era innamorato, la cui
sorella, Matilde, con il passare degli anni anziché ammorbidirsi era sempre più
sostenitrice dell’indipendenza delle donne.
Giovanni, che lavorava come panettiere e
coltivava l’hobby della fotografia, materia imparata nei lontani anni di
emigrazione a Monte San Savino, in provincia di Arezzo, dove si era trasferito
da bambino con la famiglia, prima di far ritorno a Mezzana, alla fine aveva
acconsentito a quelle nozze. Non che avesse niente in contrario, l’unica cosa
era appunto l’età di Raffaella, sua figlia (chiamata così per ricordare il
fratello Raffaele, morto in Sudamerica) che risultava ancora minorenne, perché
all’epoca la maggiore età si raggiungeva a 21 anni. In fondo il promesso sposo
era figlio di Pietro Pedergnana, quello stesso Pietro con cui Giovanni aveva
combattuto il primo conflitto mondiale e inoltre la nuova casa era ancora in
paese, per cui ci sarebbe stata facilità nel frequentarsi.
Il promesso sposo si chiamava
come lui, Giovanni, e come tutti in paese gestiva un piccolo allevamento di
bovini. Veniva spesso a “morose”, come si diceva in dialetto e a volte il
carattere pur mite del ragazzo gli faceva alzare gli occhi al cielo quando, passata
l’ora, non ne voleva sapere di andarsene. Allora Giovanni padre, seduto in un
angolo, perché era sempre presente, lui, tossicchiava un paio di volte, come a
far capire che era ora di tornare a casa.
Il fidanzato capiva-a volte servivano parecchi
colpi di tosse- e Giovanni con una punta d’ironia aveva anche l’ardire di
guardarlo negli occhi come a dire “Di già? Guarda un po’ com’è volato il
tempo!” mentre Raffaella accompagnava il ragazzo alla porta e Giovanni la
sprangava, casomai volesse tornare indietro. La moglie Violante lo derideva un
poco per questo suo comportamento mentre a Raffaella pareva che il padre
iniziasse a tossire ogni volta sempre prima del dovuto.
A Giovanni non dispiaceva che la
figlia avesse uno spasimante ma era convinto che fosse ancora troppo giovane
per sposarsi.
“Cosa vorresti fare, chiuderla
nella sua stanza finché non sarà cresciuta?” diceva Violante, che in fondo però
condivideva l’opinione del marito.
“Che discorsi, Violante! Però mi
dispiace, ecco, anche se lui mi pare un bravo giovane” rispose Giovanni mentre
si accendeva la pipa.
“Perché che cosa credi, che a me
non dispiaccia? Sono sua madre, a me pare ancora una bambina. In fondo è ancora
un po’ bambina, ma se vogliono sposarsi, che possiamo fare?” disse Violante allargando
le braccia, come a dire che più di tanto non potevano intervenire.
Dalla sua stanza, Raffaella aveva
ascoltato tutto il discorso dei genitori. Le dispiacque un poco sentirli
parlare così, non perché avessero detto qualcosa di male, ma perché capiva che
non erano pronti a separarsi da lei, eppure lei voleva sposare quel ragazzo e
così sarebbe stato. Sarebbe stato difficile anche per lei lasciare la casa
dov’era nata, lasciare la vita che aveva vissuto fino a quel momento e tutto
ciò che le era familiare. La loro casa era in alto al paese, la casa che
l’attendeva più in basso, dopo il cimitero che, di notte, brillava di fiammelle
blu che, le aveva spiegato suo padre, erano i fuochi fatui delle sepolture.
All’inizio ne aveva avuto paura, poi erano diventati uno spettacolo abituale.
Sua sorella e suo fratello già
dormivano, ignari di come la vita cambi in poco tempo, ignari di quanto anche
un momento felice possa portare con sé anche un retrogusto amaro, una
sofferenza per ciò che non sarà più.
Le scese una lacrima al pensiero
che tutto sarebbe cambiato, allora aprì piano una finestra e guardò il cielo
punteggiato di stelle. In quel momento capì che tutto sarebbe andato per il
meglio e la paura, insieme alla malinconia, svanirono nella notte.
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